Profili penalistici del diritto di lasciarsi morire rifiutando le cure e diritto di essere aiutati a morire con dignità

Di Avv. Laura Lenzi

La questione oggetto della presente analisi richiede la preliminare disamina delle cause di esclusione della pena, con particolare riferimento al consenso dell’avente diritto di cui all’art. 50 c.p. e alla sua rilevanza nell’ambito delle prestazioni sanitarie.

L’ordinamento italiano colloca tra le cause di esclusione della pena le cause di non punibilità in senso stretto, di tipo soggettivo od oggettivo; le cause di esclusione della colpevolezza, dette anche esimenti o scusanti; nonché le cause di giustificazione o scriminanti.

Sul punto, è d’uopo fin d’ora osservare che l’appartenenza all’una o all’altra categoria, in considerazione della ratio giustificatrice delle norme in esame, comporta notevoli conseguenze in ordine alla disciplina applicabile.

Le cause di non punibilità in senso stretto, in primo luogo, sono ispirate a ragioni di opportunità politico-criminale ed escludono unicamente la rilevanza penale del fatto, lasciando residuare la responsabilità dell’autore dell’illecito sotto il profilo civilistico e comportando, conseguentemente, l’insorgere di un diritto risarcitorio, ove ne ricorrano i presupposti, in capo alla persona danneggiata dal reato. Come anticipato, le cause di non punibilità in senso stretto possono essere di tipo oggettivo o soggettivo, un esempio di quest’ultimo tipo è dato dall’art. 649, co 1, c.p., posto a tutela dei rapporti familiari, che esclude la punibilità di determinati delitti contro il patrimonio commessi a danno dei congiunti. Un esempio di causa di non punibilità in senso stretto di tipo oggettivo, invece, è dato dall’art. 131 bis c.p., che esclude la punibilità nei casi di particolare tenuità del fatto. La rilevanza oggettiva o soggettiva delle cause di non punibilità in senso stretto, d’altra parte, determina, rispettivamente, l’estensibilità o la non estensibilità della circostanza ai concorrenti nel reato secondo quanto disposto dall’art. 119 c.p..

Le cause di esclusione della colpevolezza, in secondo luogo, sono previste dagli artt. 45, 46, 47, 48, e 49 c.p. ed escludono la responsabilità penale per assenza di colpevolezza: incidendo sull’elemento soggettivo del reato, infatti, consentono di affermare che, in presenza di certe condizioni legislativamente previste, il comportamento conforme alla legge non sarebbe neppure esigibile, di talché, il fatto illecito non potrebbe essere oggetto di rimprovero nei confronti del soggetto, in ossequio al principio di personalità della responsabilità penale di cui all’art. 27 Cost.. In punto di disciplina, la rilevanza soggettiva di tale circostanza la rende non estensibile ai concorrenti ai sensi dell’art. 119, co 1, c.p. ed il fatto, pur non punibile, rimane illecito per tutto l’ordinamento, comportando un obbligo risarcitorio in capo a colui che lo abbia commesso.

Venendo ora all’analisi delle cause di giustificazione, occorre precisare, anzitutto, che le stesse rendono il fatto lecito per tutto l’ordinamento in quanto si fondano sul principio di non contraddizione in base al quale l’ordinamento giuridico non può ad un tempo ammettere o, addirittura, incentivare un certo comportamento e, dall’altro lato, vietarlo.

Le cause di giustificazione, dunque, disciplinate all’interno degli artt. 50, 51, 52, 53 e 54 c.p., escludono l’antigiuridicità del comportamento sia sotto il profilo penalistico che civilistico e sia per l’autore del fatto che per i concorrenti nel reato, ai sensi dell’art. 119, co 1, c.p. In ragione di quanto appena affermato, l’art. 59, co 1, c.p. prevede la rilevanza oggettiva delle cause di giustificazione, le quali trovano applicazione anche se non conosciute o conoscibili dall’agente. L’art. 59, co 4, c.p., dall’altro lato, prevede la rilevanza anche del putativo in relazione alle scriminanti, le quali sono valutate a favore dell’agente anche se erroneamente supposte.

Tra le cause di giustificazione appena richiamate, assume particolare rilevanza nell’ambito dell’attività medica il consenso dell’avente diritto, disciplinato all’interno dell’art. 50 c.p.. In base a detta norma, invero, non è punibile chi lede o pone in pericolo un diritto con il consenso della persona che può validamente disporne e ciò in quanto l’ordinamento rinuncia a tutelare un diritto quando vi è rinuncia in tal senso da parte del suo stesso titolare. Perché operi questa scriminante, tuttavia, occorre che il diritto rientri tra quelli disponibili e che il consenso sia libero, cioè non frutto di condizionamento o coartazione; consapevole, cioè informato; personale, in quanto non è ammesso consenso per procura; attuale, cioè sussistente al momento del fatto e sempre revocabile; nonché esplicito, in quanto espressione di una volontà manifestata in modo inequivocabile.

Tra i diritti disponibili, più specificatamente, si collocano i diritti patrimoniali e i diritti della personalità, quali, ad esempio, il diritto all’immagine o alla riservatezza; tra i diritti parzialmente disponibili si colloca il diritto all’integrità personale, disponibile nei limiti di cui all’art. 5 c.c.; mentre tra i diritti indisponibili si collocano i diritti patrimoniali o personali altrui, nonché il diritto alla vita, tutelato sia come massima espressione del diritto alla salute ai sensi degli artt. 32 Cost., 1-3 della Carta di Nizza e 2 Cedu, che come interesse generale dello Stato correlato ad una visione utilitaristica della persona umana come membro di una collettività organizzata.

L’accoglimento di questo tipo di concezione della persona umana da parte del codice del 1930 risulta evidente dall’incriminazione della condotta di omicidio del consenziente e di quella di istigazione al suicidio da parte, rispettivamente, degli artt. 579 e 580 c.p..

La tutela del diritto alla vita, così intesa, ha suscitato non irrilevanti controversie nell’ambito della dottrina e della giurisprudenza soprattutto con riguardo al diritto di lasciarsi morire rifiutando le cure.

Ebbene, l’art. 32 della Costituzione e l’art. 3 della Carta di Nizza, pur riconoscendo il diritto alla salute come interesse della collettività, nondimeno tutelano il diritto all’autodeterminazione terapeutica, disponendo, in primo luogo, che nessuno può essere obbligato ad un trattamento sanitario se non nei casi stabiliti dalla legge e, secondariamente, che in ambito medico deve sempre essere rispettato il consenso libero ed informato della persona interessata, secondo le modalità stabilite dalla legge. Il descritto quadro normativo, quindi, ha condotto per lungo tempo parte della dottrina e della giurisprudenza ad ammettere l’efficacia scriminante del consenso dell’avente diritto ogniqualvolta la prestazione sanitaria comporti una lesione dell’integrità fisica, ma fintanto che ciò non comporti la lesione del diritto alla vita, atteso che in tal caso il comportamento del medico sarebbe incriminato ex art. 579 c.p., in ragione della natura indisponibile del diritto in questione.

Sempre più spesso, tuttavia, nella prassi è sorta l’esigenza di bilanciare il diritto alla vita con il diritto all’autodeterminazione terapeutica che, secondo la giurisprudenza più recente, deve ritenersi comprensivo del diritto di lasciarsi morire rifiutando le cure.

In particolare, i più recenti arresti giurisprudenziali sul punto hanno fatto leva sulla distinzione tra eutanasia attiva ed eutanasia passiva allo scopo di ammettere quest’ultima e garantire il diritto del soggetto a sottrarsi a qualsiasi forma di accanimento terapeutico contrario alla sua volontà. L’eutanasia passiva, in particolare, comporta il diritto di rifiutare le cure in modo da favorire il decorso biologico della malattia fino al sopraggiungere della morte; l’eutanasia attiva, viceversa, comporta la somministrazione di un farmaco letale che acceleri il naturale decorso della malattia conducendo il paziente, più velocemente, alla morte.

Alla luce di quanto suesposto, dunque, ammessa l’eutanasia cosiddetta passiva, il caso che ha generato maggiori dubbi in sede giurisprudenziale è stato quello riguardante un soggetto in stato vegetativo che sia, pertanto, incapace di esprimere validamente il proprio consenso alla interruzione delle terapie salvifiche, problema strettamente connesso alla incapacità del tutore di sostituirsi al paziente nel compimento di atti personalissimi. La giurisprudenza, sul punto, ha poi chiarito che, ove il soggetto si trovi in stato vegetativo di carattere irreversibile, il tutore può rifiutare le terapie salvifiche in luogo del paziente solo laddove gli elementi probatori del caso concreto consentano di ricostruire ex post la volontà che il paziente avrebbe espresso ove fosse stato nelle condizioni di esprimere il suo consenso. A tale scopo occorrerà avere riguardo, in particolare, alle sue convinzioni religiose, etiche, politiche, nonché alle posizioni eventualmente espresse sull’argomento e a tutte quelle circostanze dalle quali possa ricavarsi inequivocabilmente la sua volontà di rifiutare le cure.

Quanto statuito dalla giurisprudenza, tuttavia, lasciava permanere non irrilevanti perplessità circa l’attualità e, quindi, la revocabilità in ogni tempo del consenso, necessaria affinché il consenso abbia efficacia scriminante e, di conseguenza, circa la responsabilità del medico che, in presenza di tali presupposti, abbia interrotto le terapie salvifiche.

I richiamati profili di criticità, tuttavia, sono stati in gran parte risolti con la legge n. 219/2017 sul cosiddetto testamento biologico, la quale ha previsto la possibilità di disporre anticipatamente del proprio diritto di ricevere o rifiutare le cure per il caso in cui il soggetto si trovi in futuro nell’impossibilità materiale di manifestare la propria volontà, nonché di nominare una persona di fiducia che rappresenti il paziente nelle relazioni con il medico e con le strutture sanitarie.

Al comma 6 della medesima norma, inoltre, il Legislatore ha introdotto una specifica causa di non punibilità a favore del medico che abbia interrotto ovvero non abbia dato inizio al trattamento sanitario del paziente in accordo con la volontà da quest’ultimo espressa. La norma esclude la punibilità del medico sia sotto il profilo penalistico che civilistico, portando la dottrina e la giurisprudenza maggioritarie a qualificare la disposizione in esame come una causa di giustificazione idonea a rendere il fatto lecito per tutto l’ordinamento e fondata sul bilanciamento tra l’interesse generale di tutela del diritto alla vita e quello personale all’autodeterminazione terapeutica, comprensivo del diritto a morire rifiutando le cure.

E’ d’uopo rilevare, ancora, che la prassi applicativa non ha mancato di portare all’attenzione delle istituzioni nuove esigenze legate anche alla tutela del diritto alla dignità umana, non espressamente previsto dalla lettera della Carta Costituzionale italiana, ma riconosciuto unanimemente come principio fondamentale e ispiratore di tutte le norme giuridiche poste a tutela della persona umana, in ogni caso ricavabile per via indiretta dall’art. 11 Cost. in relazione all’art. 1 della Carta di Nizza, che impone il rispetto della dignità umana quale diritto inviolabile della persona.

Il rifiuto delle terapie salvifiche, infatti, può condurre ad una morte lunga e dolorosa, non in grado di garantire il rispetto della dignità umana, che deve essere garantito anche nella fase finale della malattia. Da ciò consegue che, sebbene l’ipotesi dell’eutanasia passiva risulti essere in grado di rispettare la libertà di autodeterminazione del paziente, non sempre è in grado di garantire il suo diritto, parimenti riconosciuto dalla legge, di vivere e morire con dignità. A questa esigenza ha risposto in parte il Legislatore con l’art. 2 della legge n. 219/2017, consentendo al medico di ricorrere, con il consenso del paziente ed in presenza di sofferenze refrattarie ai trattamenti sanitari, alla sedazione palliativa profonda continua in associazione con la terapia del dolore.

Ciononostante, l’ordinamento giuridico italiano continua ad incriminare l’istigazione al suicidio, di cui all’art. 580 c.p., già oggetto di sanzione penale nel codice Zanardelli del 1889.

In particolare, la condotta incriminata è quella di colui che determina in altri un proposito suicida prima inesistente, rafforza l’altrui proposito di suicidio ovvero fornisce un qualsiasi aiuto materiale alla esecuzione di tale proposito. Un’ipotesi di tal fatta si pone al di fuori dell’art. 579 c.p. giacché la morte non è eteroindotta, ma autoindotta, seppur con il contributo agevolatore, morale o materiale, del soggetto attivo del reato.

Ebbene, sul punto occorre ricordare una recente pronuncia della Corte Costituzionale che ha evidenziato un vuoto di tutela nei casi in cui il soggetto si trovi in uno stato patologico di tale gravità da risultare incompatibile con una sopravvivenza dignitosa e che, pertanto, desideri porre fine alla propria esistenza, ma non possa farlo senza l’aiuto materiale di un altro soggetto. Nel caso di specie, il Giudice delle Leggi, non potendo, per il principio di separazione dei poteri, prevedere una causa di non punibilità correlata ad ipotesi di questo tipo, si è limitato a sollecitare il Legislatore a colmare detto vuoto di tutela secondo le modalità ritenute più opportune ed in modo da garantire il corretto bilanciamento tra l’interesse generale alla tutela del diritto alla vita e quello, comunque costituzionalmente rilevante, di morire con dignità.

In conclusione, alla luce di quanto suesposto, appare evidente il mutamento del contesto storico-sociale in cui il diritto penale trova la sua applicazione, mutamento che sta determinando, soprattutto in certi settori, la progressiva erosione dei poteri punitivi dello Stato a fronte di una concezione sempre più antropocentrica del diritto penale, anche quale frutto dell’opera di armonizzazione del diritto interno con quello sovranazionale.

Avv. Laura Lenzi

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