Dell’Avv. Laura Lenzi
La presente analisi prende le mosse da una riflessione sorta sulla ragionevolezza, proporzionalità, adeguatezza e legalità della fattispecie incriminatrice di cui all’art. 278 c.p., con particolare riferimento all’opportunità della permanenza nell’ordinamento giuridico italiano di una norma penale che riconosce un ingiustificato quid pluris di tutela in favore del Presidente della Repubblica rispetto ad ogni altro privato cittadino a fronte della medesima condotta criminosa tenuta dal soggetto agente.
La disamina critica della fattispecie de qua che ci si propone di affrontare persegue, infatti, il dichiarato intento di svolgere delle considerazioni sulla necessità di espungere definitivamente dall’ordinamento giuridico italiano ogni forma ingiustificata di privilegio riconosciuta a soggetti esercenti pubbliche funzioni qualora risultino vittime di condotte criminose del tutto coincidenti strutturalmente con quelle poste in essere ai danni di qualsiasi altro privato cittadino ed aventi, in sostanza, il medesimo contenuto di disvalore. Come si avrà modo di chiarire più avanti, invero, a parere di chi scrive deve essere ritenuto contrario al principio costituzionale di uguaglianza, a fronte di condotte identiche, un trattamento sanzionatorio più severo fondato unicamente sulla qualità personale del soggetto passivo del reato.
Ebbene, venendo ora all’analisi della fattispecie, deve essere osservato che l’art. 278 c.p., punisce con la reclusione da uno a cinque anni “chiunque offende l’onore o il prestigio del Presidente della Repubblica” in quanto tale ed indipendentemente dal fatto che detta offesa sia rivolta al Capo dello Stato nello svolgimento di un atto del suo ufficio ovvero a causa o nell’esercizio delle sue funzioni; andando, conseguentemente, a dotare di una maggiore tutela colui che ricopre tale carica rispetto al quisque de populo, la cui reputazione è salvaguardata dal reato di diffamazione che, ai sensi dell’art. 595 c.p., prevede la reclusione fino a un anno o la multa fino a € 1,032.
Sul punto la dottrina è concorde nel ritenere che la fattispecie in oggetto comprende sia l’offesa al prestigio del Capo dello Stato in ragione della carica ricoperta, sia quella all’onore individuale (inteso come onore personale o come reputazione)[1].
Le ragioni di questa tutela rafforzata debbono essere ricavate dal contesto storico-sociale in cui la fattispecie incriminatrice in oggetto è stata elaborata.
In particolare, deve essere ricordato che la norma in commento è stata così sostituita dall’art. 2 della legge n. 1317 dell’11 novembre 1947 e, com’è ovvio, il testo previgente puniva l’offesa ai membri della Famiglia Reale. I delitti di vilipendio, più in generale, già presenti nel codice penale Zanardelli, furono potenziati dal codice Rocco con l’estensione dell’area di rilevanza penale e con l’aumento dei livelli edittali di pena.
Sebbene la permanenza di queste fattispecie all’interno del codice penale abbia destato molteplici perplessità di ordine costituzionale, la Corte Costituzionale ne ha sempre convalidato la legittimità e la legge n. 85/2006, che ha riguardato altre norme incriminatrici della condotta di vilipendio, ma non anche la fattispecie oggetto della presente analisi, non ha colto l’occasione per una revisione più radicale, lasciando di fatto inalterata la struttura di questi reati e limitandosi ad un drastico abbassamento delle pene, determinando una complessiva bagatellizzazione del disvalore di queste fattispecie[2].
Con particolare riferimento all’art. 278 c.p., dunque, può essere osservato che la permanenza di questa fattispecie nel codice penale italiano costituisce un retaggio storico del nostro ordinamento imputabile alla concezione che il codice Rocco, edito in epoca fascista, aveva dello Stato e, più in generale, delle organizzazioni sociali, quali strumenti necessari alla sopravvivenza del regime. La richiamata dimensione autoritaria e statalista che permeava il codice del 1930, tesa a privilegiare le esigenze di difesa sociale piuttosto che i diritti di libertà dell’individuo, ben può essere apprezzata ancora oggi nell’ordine con cui il codice Rocco tratta la parte dedicata ai singoli reati, la quale, non a caso, si apre con i “delitti contro la personalità dello Stato” per occuparsi dei “delitti contro la persona” soltanto da ultimo, appena prima dei reati patrimoniali.
Come anticipato, con l’entrata in vigore della Costituzione nel 1948 e con la successiva entrata in funzione della Corte Costituzionale nel 1955, gli interventi abrogativi sono stati numerosi ed hanno comportato la progressiva erosione dei poteri punitivi dello Stato con riguardo ad una serie di reati, nell’ottica di realizzare una concezione sempre più antropocentrica del diritto penale, in linea con il dettato normativo costituzionale.
Ebbene, questo breve excursus storico si ritiene necessario allo scopo di dimostrare che, nonostante l’opera di armonizzazione del codice Rocco con i dettami della Carta Costituzionale posta in essere attraverso plurimi interventi abrogativi del Legislatore ed altrettante pronunce di illegittimità costituzionale del Giudice delle Leggi, residuano ancora oggi nel nostro ordinamento forme di tutela penale che possono essere a tutti gli effetti catalogate come lasciti di un passato ancora piuttosto recente, ma che non trovano più ancoraggio nell’odierna concezione di Stato di diritto.
Oltre alla fattispecie oggetto della presente analisi, di cui si dirà nel proseguo, solo a titolo esemplificativo basti pensare alla questione di grande attualità che è sorta recentemente con riferimento alla legittimità costituzionale dell’art. 580 c.p. che punisce la condotta di istigazione al suicidio. La ratio di tale fattispecie incriminatrice, invero, deve rinvenirsi in una – forse superata – concezione del diritto alla vita (inteso come massima espressione del diritto alla salute) più che come interesse individuale come interesse generale dello Stato, correlato ad una visione utilitaristica della persona umana quale membro di una collettività organizzata.
Venendo ora all’analisi della fattispecie di cui all’art. 278 c.p., occorre rilevare che il primo profilo di incostituzionalità che caratterizza questa norma, a parere di chi scrive, deve essere ravvisato con riferimento all’art. 3 della Costituzione, anche alla luce delle ragioni per le quali è stato abrogato (e poi reintrodotto) il reato di oltraggio a un pubblico ufficiale che, rispetto alla fattispecie de qua, presenta numerose analogie.
L’art. 3 della Costituzione tutela il principio di uguaglianza formale e sostanziale, inteso sia come divieto di discriminazione che come uguaglianza di punti di partenza per l’esercizio dei diritti, atteso che la Repubblica è chiamata ad eliminare gli ostacoli di ordine economico e/o sociale che potrebbero opporvisi.
Con particolare riguardo al principio di uguaglianza formale, enunciato all’art. 3, co. 1, Cost., esso dispone che “tutti i cittadini (…) sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.
Una norma siffatta sancisce, anzitutto, la forza e l’efficacia generalizzata della legge che si applica a chiunque, senza alcuna distinzione tra “governati” o “governanti”. Così come concepita nel 1948, la norma in questione impone al Legislatore un divieto di discriminazione che si traduce in divieto di leggi singolari o personali.
In particolare, in applicazione del predetto principio di non discriminazione, ricavabile dall’art. 3 Cost., la Corte Costituzionale si è più volta espressa nel senso di ritenere violato il principio di uguaglianza quando la legge, senza un ragionevole motivo, riservi un trattamento diverso a cittadini che si trovino in una situazione eguale[3]. Al Legislatore, quindi, non è inibita la possibilità di adottare differenziazioni normative, bensì è richiesto di adottare criteri di differenziazione ragionevoli. In base a tale principio di ragionevolezza, dunque, la Corte Costituzionale ha imposto di fatto al Legislatore l’obbligo di trattare in modo uguale ciò che è oggettivamente uguale ed in maniera diversa ciò che è oggettivamente diverso, nel rispetto delle peculiarità e delle differenze proprie di ogni specifica situazione[4].
In materia di diritto penale questi approdi giurisprudenziali non possono che tradursi nella necessità di riconoscere lo stesso trattamento sanzionatorio a condotte caratterizzate dal medesimo contenuto di disvalore, senza che trattamenti differenziati possano essere giustificati da quelle “condizioni personali e sociali” richiamate dall’art. 3 Cost. e rispetto alle quali è esplicitamente imposto un divieto di discriminazione che conosce, quale unica possibilità di deroga, l’applicazione del principio di ragionevolezza.
In particolare, sulla natura del giudizio di ragionevolezza il Giudice delle Leggi ha avuto modo di precisare che per valutare la razionalità di una certa disciplina “non si deve guardare soltanto alla posizione formale di chi ne è destinatario ma anche alla funzione od allo scopo a cui essa è preordinata[5]”.
Con riguardo alla questione oggetto della presente analisi, quindi, a parere di chi scrive l’art. 278 c.p. può dirsi ragionevole solo nella misura in cui trova applicazione in caso di offese rivolte al Presidente della Repubblica nell’esercizio o a causa delle sue funzioni, perché è solo in quel frangente che, stante la ratio della norma in commento, l’offesa può essere ritenuta idonea a colpire la più alta carica dello Stato in ragione del suo valore simbolico oltre che idonea a perturbare lo svolgimento della funzione pubblica ricoperta, non già quando le offese colpiscano la persona nella sua individualità privata.
Quanto evidenziato oggi con riferimento all’art. 278 c.p. è stato in passato motivo di doglianza in relazione al reato di oltraggio a un pubblico ufficiale, assimilabile per molteplici aspetti al reato di offesa all’onore o al prestigio del Presidente della Repubblica.
Più specificatamente, il reato di oltraggio a un pubblico ufficiale era in passato disciplinato dall’art. 341 c.p. ed è stato successivamente abrogato con l’art. 18, co. 1, della legge n. 205/1999 nel contesto di una più ampia normativa di delega al Governo per la depenalizzazione di reati considerati minori e di modifiche al sistema penale e tributario. Ciò ha determinato il venir meno di alcune questioni di legittimità costituzionale che erano state sollevate con riferimento a detta fattispecie incriminatrice ed incentrate sostanzialmente sulla considerazione in base alla quale contrasterebbe con la Carta Costituzionale una più incisiva tutela dell’onore del pubblico ufficiale rispetto a quella degli altri cittadini.
A causa del citato intervento abrogativo, dunque, la Corte Costituzionale non ha avuto modo di pronunciarsi sulla questione di costituzionalità riguardante il delitto di oltraggio a un pubblico ufficiale.
La fattispecie incriminatrice, infine, è stata reintrodotta nell’art. 341 bis c.p. con legge n. 94/2009. La norma in parola, pur mantenendo identità di rubrica e presentando diverse analogie con la precedente disposizione, delinea una figura di illecito che la Suprema Corte ha definito come caratterizzata da “un mutato ambito oggettivo, per l’inserimento nella fattispecie di presupposti fattuali qualificanti la condotta ed indicativi del fatto che ciò che viene riprovato dall’ordinamento non è la mera lesione in sé dell’onore e della reputazione del pubblico ufficiale, quanto la conoscenza di tale violazione da parte di un contesto soggettivo allargato a più persone presenti al momento dell’azione, da compiersi in un ambito spaziale specificato come luogo pubblico o aperto al pubblico e in contestualità con il compimento dell’atto dell’ufficio ed a causa o nell’esercizio della funzione pubblica”. In altre parole, il Legislatore “incrimina comportamenti ritenuti pregiudizievoli del bene protetto, a condizione della diffusione della percezione dell’offesa, del collegamento temporale e finalistico con l’esercizio della potestà pubblica e della possibile interferenza pertubatrice col suo espletamento[6]”.
Come evidenziato dalla Corte di Cassazione, invero, trattandosi di delitto contro la Pubblica Amministrazione, costituisce elemento essenziale del reato in questione il nesso tra l’offesa e la funzione esercitata dal pubblico ufficiale oltraggiato: nell’ottica di restringere l’ambito applicativo della norma in esame, quindi, perché possa ritenersi integrato il delitto di cui all’art. 341 bis c.p. l’offesa deve essere arrecata al pubblico ufficiale a causa o nell’esercizio delle sue funzioni e mentre compie un atto d’ufficio. Anche sotto il profilo soggettivo, inoltre, il dolo generico richiesto dalla fattispecie richiede che l’agente abbia non solo la consapevolezza della qualità di pubblico ufficiale della vittima, ma anche del fatto che quest’ultima stesse compiendo un atto del suo ufficio.
Nello stesso senso, di conseguenza, dovrebbe essere inteso il delitto di cui all’art. 278 c.p., il quale presenta profili di incostituzionalità proprio con riferimento alla parte in cui la norma non circoscrive la rilevanza penale dell’offesa all’ipotesi in cui essa sia arrecata al Presidente della Repubblica a causa o nell’esercizio delle sue funzioni istituzionali.
La qualità di Presidente della Repubblica della persona offesa, invero, può ragionevolmente determinare un trattamento sanzionatorio diversificato e peggiorativo per l’autore del reato, ma l’offesa deve riguardare, appunto, la carica ricoperta e non la persona nella sua sfera privata (la tutela della quale è già adeguatamente garantita dall’art. 595 c.p.).
Alla luce di quanto suesposto, dunque, se l’oltraggio al pubblico ufficiale inteso come persona fisica deve essere derubricato nel meno grave delitto di diffamazione, per le stesse ragioni dovrà essere considerata diffamazione l’offesa diretta al Capo dello Stato che non sia legata all’esercizio della funzione pubblica da quest’ultimo espletata. Ragionando a contrario si otterrebbe una disparità di trattamento con riferimento a condotte caratterizzate dal medesimo contenuto di disvalore non supportata dal criterio della ragionevolezza e, quindi, in contrasto con l’art. 3 Cost..
In secondo luogo, proseguendo con l’analisi dei profili di illegittimità costituzionale ravvisabili nella norma in commento, dev’essere osservato che, quand’anche si ritenga che il reato di “Offesa all’onore o al prestigio del Presidente della Repubblica”, di cui all’art. 278 c.p., non sia in contrasto con l’art. 3 Cost. per le ragioni appena esposte, non può essere taciuto che da tempo è sorto un vivace dibattito a livello dottrinale in ordine alla legittimità costituzionale di tutti i reati di vilipendio politico, ritenuti secondo molti autori in contrasto con il diritto di libera manifestazione del pensiero tutelato dall’art. 21 Cost..
Più specificatamente, la tesi prevalente nella più recente dottrina, cosiddetta tesi abolizionista, ritiene che l’attuale disciplina dei reati di vilipendio sia irrimediabilmente inconciliabile con la lettera dell’art. 21 Cost. e comunque con i principi e lo spirito della Costituzione, volta a tutelare i diritti delle minoranze.
Come sostenuto da questa parte della dottrina, invero, nell’ordinamento costituzionale la libertà di manifestazione del pensiero riveste un ruolo fondamentale all’interno di una forma di governo democratica ed in quanto tale dovrebbe essere valorizzata soprattutto in ambito politico. Sul punto anche la Corte europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali ha da tempo affermato che la libertà di espressione “vale non solo per le informazioni o idee accolte con favore o considerate inoffensive o indifferenti ma anche per quelle che offendono, indignano o turbano lo Stato o una qualsiasi parte della popolazione. Così vogliono il pluralismo, la tolleranza e lo spirito di apertura, senza i quali non vi è società democratica[7]”. Ciò nondimeno persistono nel sistema penale italiano molti reati di opinione che rendono il cosiddetto diritto penale politico una sorta di microcosmo normativo del tutto scollegato dal contesto storico sociale in cui esso trova applicazione. Come osservato dalla dottrina più attenta, infatti, “il prestigio delle istituzioni non si difende con lo strumento penale, ma attraverso il loro concreto operare, in una logica dialettica che deve accettare anche le critiche più dure[8]”.
I reati di vilipendio politico, tra i quali può essere collocato anche l’art. 278 c.p., finiscono così per diventare strumenti di controllo del dissenso, controllo che autorevole dottrina reputa tanto più pericoloso quanto più è ampio il potere discrezionale del giudice chiamato a pronunciarsi su queste fattispecie.
Contro la tesi della prevalenza del prestigio delle istituzioni sul diritto di libera manifestazione del pensiero, infatti, è stato obiettato che opporre tale prestigio come valore da rispettare, di contro alla libertà di polemica, significa “tagliare la lingua” al dissenziente: oggetto della libera critica è, appunto, proprio il far sapere e sentire che quel prestigio non ha ragion d’essere[9].
Alla luce delle considerazioni sin qui effettuate, dunque, è possibile concludere che sussistono i presupposti per una integrale abrogazione dell’art. 278 c.p. conseguente ad una pronuncia di incostituzionalità della norma, anche in quanto contrastante con l’art. 21 Cost..
Avv. Laura Lenzi
[1] M. Pelissero: “Reati contro la personalità dello Stato e contro l’ordine pubblico” (Trattato teorico-pratico di diritto penale, p. 124, G. Giappichelli Editore, ed. 2010).
[2] M. Pelissero: “Reati contro la personalità dello Stato e contro l’ordine pubblico” (Trattato teorico-pratico di diritto penale, p. 108, G. Giappichelli Editore, ed. 2010).
[3] Corte Cost. n. 15/1960.
[4] Corte Cost. nn. 21/1961 e 5/1980.
[5] Corte Cost. n. 54/1968.
[6] Cass. n. 15367/2014.
[7] Corte europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, 23 settembre 1998, ric. N. 24662/94, Lehideux et Isorni c. Francia.
[8] La parola pericolosa. Il confine incerto del controllo penale del dissenso, Marco Pelissero. In “Questione Giustizia” 2015.
[9] D. Pulitanò, Libertà di pensiero e pensieri cattivi, in Quale giustizia, 1970, 191-193.
